Roy Hargrove – Anche i giganti riposano

di Bruno Spagnuolo

Il gigante giovane del jazz, Roy Hargrove, si è spento a New York, a soli 49 anni per arresto cardiaco. E’ stato per anni l’anello di congiunzione tra il nuovo e il vecchio modo di fare jazz, con i suoi sottogeneri newyorchesi come il bebop.
Nato in Texas, Hargrove fa comparsa molto presto sulla scena jazz internazionale, tanto da vantare a soli venti anni, una collaborazione con il grande pianista Sonny Rollins.
Preso sotto l’ala protettrice di Wynton Marsalis che lo aveva scoperto quando era ancora uno studente di jazz a Dallas, comincia a farsi spazio nell’ambiente del jazz newyorchese che conta.
Saranno tante le collaborazioni che arricchiranno la carriera di Roy; da Steve Coleman a Oscar Peterson, da Jackie McLean a Michael Brecker. Non rinuncerà mai però alla carriera da solista. Pubblicherà infatti diciotto album da leader, sotto diverse etichette. Tra questi spiccano sicuramente per maestria e richiami alla vecchia tradizione bebop, Habana (1997, Verve Records) che gli varrà un grammy, nell’edizione del 1997 e Approaching standards (Columbia House 1994).
Di Grammy ne vincerà ancora uno, con Directions in music: Live at Massey Hall (Verve Records 2002) nella categoria miglior album di Jazz strumentale. Alla realizzazione di quest’ultimo album, prenderà parte anche Herbie Hancock che si rivelerà un grande estimatore del trombettista texano. Ma di premi, ne avrebbe meritati sicuramente di più.
Il suo stile decisamente energico quanto delicato, ricco di personalità dolcemente sfumata in un armonia che alterna spesso momenti di estrema duttilità a momenti ostinatamente robusti, è accostabile a quello di Dizzie Gillespie, con cui ha condiviso anche la passione per la musica caraibica.
Ma la linearità non è stata sempre predominante nel modo di fare musica di Hargrove, anzi, la sperimentazione è stato forse l’aspetto più importante della sua carriera. Facendo riferimento a sperimentazioni di natura puramente tecnica, basti pensare alla costituzione delle formazioni di cui faceva parte; ha suonato in ogni tipo di formazione jazz pensabile: dal trio al quartetto, fino al sestetto e alla big band. Anche dal punto di vista stilistico, si è spinto tante volte oltre la zeta di Jazz, ricercando suoni provenienti dai prodotti neonascenti dell’ambiente black. Il periodo di massimo discostamento dal jazz lineare, lo ha sicuramente raggiunto all’inizio degli anni duemila, con la band progressiva RH Factor, di cui era direttore. Le sonorità di questo periodo della carriera di Roy erano fortemente influenzate dal funk, da Hip Hop e Soul. Ciò però non toglie nulla, anzi arricchisce una carriera è già di per se fuori dal comune. Una carriera che ci lascia orfani di una musica nostalgica che stenta sempre più a proporre protagonisti che sappiano rinnovarsi e che sappiano portare avanti una tradizione culturale oltre che musicale, ricca di storia e a rischio di estinzione.
Ci auguriamo che possano ancora esserci giganti come te.
Ciao Roy

Pubblicato il 8 novembre 2018, in Mondo Cultura, Musica con tag , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.