Is this the life we really want? – riflessioni intorno l’idiozia

di Bruno Spagnuolo

È veramente questa la vita che vogliamo? La domanda è più che mai attuale. Noi dell’epoca dell’incertezza, dell’epoca dell’imprevedibilità, storicamente imbrigliati nel ritorno all’età del carbone, sappiamo bene quali insidie nasconde una domanda del genere e quali sono i fenomeni che la generano.
Una riflessione sulla condizione d’incertezza ci viene fornita dal genio di Roger Waters, fondatore e bassista dei Pink Floyd, che nel suo ultimo album antepone l’odiosa domanda all’intera opera, domanda che ne costituisce il titolo e la naturale conclusione. I temi dell’attuale sono ricamati su quelli dell’assoluto umano e pertanto ne viene fuori una riflessione cruda ma quanto mai reale di quelli che sono i dubbi intorno ai quali ruotano le vite delle nuove generazioni. Una sorta di revisione postuma di Animals (Harvest/Emi, 1977) frutto della maturità e della consapevolezza di chi tali questioni le ha toccate con mano e le ha contrastate con forza, definendo una carriera sempre al limite fra l’attivismo e il dovere artistico. In questo album Waters ci racconta il “successo” dei porci di Animals che hanno portato a termine la loro scalata al potere, ma non lo fa con spirito arrendevole bensì con animo combattivo, in pieno stile Waters. Lui che ha combattuto da solo contro i mostri di un mondo ingiusto e che ha conosciuto la perdita di ogni punto di riferimento, a causa della morte del padre prima e del muro fra sé e sua madre poi. Quella morte che gli ha segnato la vita e che gli si ripresenta ogni giorno quando, per sua stessa ammissione, guardandosi intorno scorge il delirio dei conflitti e dei suoi morti ammazzati; insomma quella perdita, divenuta ormai un simbolo, è una creatura contro cui combattere. Per la prima volta si avverte un’angoscia razionale dovuta alla consapevolezza della mancanza oggettiva di valori in cui rifugiarsi per sfuggire ai porci. Quello di Is this the life we really want? (Columbia Records, 2017) è un Waters ormai deluso dalle false speranze di cambiamento, che a suo tempo erano state alimentate in lui dalla caduta del muro e prima ancora dalla fine della seconda guerra mondiale. Spaziando tra i brani, si può analizzare con assoluta precisione l’evoluzione degli stati d’animo, spesso in contrasto fra loro ma inevitabilmente l’uno conseguenza dell’altro.
L’album inizia con un ticchettìo, una sorta di pulsazione meccanica in netta contrapposizione al battito cardiaco che apre The dark side of the Moon (Harvest/Capitol, 1973), quel battito ormai raro che segna il confine tra la vita e la morte intesa come inerzia, tra l’essere e il non essere. Il titolo del brano non lascia spazio all’immaginazione, “When we were young”: un tema pervaso di malinconica lucidità che unisce il presente al passato. Ma siccome l’artista in questione è Roger Waters, la resa lascia presto spazio alla rabbia che passando per il brano “Dèjà vu”, in cui l’artista si immagina un protettore migliore di Dio per i suoi figli, raggiunge il suo apice in “Picture of that”, che descrive in maniera spietata le orrende immagini moderne rappresentate dall’elezione di Donald Trump («immaginate un leader senza un fottuto cervello»). La non speranza prende corpo in “The last refugee”, in cui Waters, dopo aver immaginato un ultimo simbolico rifugiato che può sperare in una vita migliore, si risveglia e capisce che è tutta un’illusione e che un ultimo rifugiato non è mai l’ultimo. Una non speranza dovuta alla natura stessa dell’uomo moderno, sempre più chiuso nel suo mondo inattaccabile e paragonato alle formiche, totalmente indaffarate ma assolutamente incapaci di comprendere e lenire il dolore altrui. Tutte le restanti tracce estremizzano il dualismo illusione/delusione in quanto mostrano tutte un’apparente bellezza che cela uno squallore senza limiti. Come “The most beautiful girl”, che parla di una donna stupenda morta sotto le bombe di un conflitto qualunque, o come “Smell the roses”, che comincia con un risveglio dal profumo di rose e finisce con un risveglio dall’odore di fosforo e carne bruciata. Un ultimo barlume di speranza compare in “A part of me died”: così come in Animals, la speranza è affidata all’amore incontaminato che ci rende liberi di scegliere, per citare il brano, di morire fra le braccia di una persona amata anziché restare in vita in preda al rimpianto. Sicuramente il verso più significativo, nel quale è racchiuso il senso dell’intera opera, è da ricercare nel brano “Broken bones”, quelle ossa rotte dal conflitto mondiale che abbiamo scelto di non sanare, scelta che non ci consente di «portare indietro l’orologio, non possiamo tornare indietro nel tempo ma possiamo dire “fottiti, non staremo a sentire le tue stronzate e le tue bugie». Una vera rottura col passato da cui, secondo Waters, non abbiamo nulla da imparare se non a ripetere gli stessi errori.
Insomma, partendo da The dark side of the moon, passando per Animals, fino a giungere a Is this the life we really want?, la rivoluzione prende forma. I tempi sono maturi, ora tocca a noi!

  • Titolo: Is this the life we really want?
  • Etichetta: Columbia Records
  • Anno: 2017

Pubblicato il 21 ottobre 2017, in Mondo Cultura, Musica con tag , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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